Di Daniela Sartirani

Cari lettori appassionati di arte, in questo nuovo post vi accompagnerò in un affascinante viaggio attraverso il tempo, esplorando le origini della fotografia: un’invenzione che ha rivoluzionato il modo in cui vediamo il mondo e un mezzo prezioso che immortala i momenti più importanti delle nostre vite.

Le origini

Da sempre l’uomo ha cercato metodi per catturare momenti di vita e fissare nel tempo ciò che lo circonda, imprimendo immagini che raccontano storie mutevoli.

Inizialmente, questa sua aspirazione si è concretizzata attraverso l’arte della pittura, che si è sviluppata fino a sfruttare la “camera oscura“: una scatola chiusa con un foro su uno dei suoi lati. La luce proveniente dall’esterno penetrava attraverso quest’apertura, creando un’immagine rovesciata e ridotta della scena.

Le prime tracce che parlano della camera oscura provengono dalla Cina e risalgono alla fine del 500 avanti Cristo.

Il primo disegno dettagliato di una camera oscura è invece attribuito al matematico olandese Jemme Reinerszoon Frisius, che la impiegò sia per osservare le stelle sia per scrutare un’eclissi solare nel dicembre del 1544.

Prima immagine pubblicata della camera oscura nel 1544

La camera oscura in una illustrazione del 1544

La camera oscura venne successivamente utilizzata anche nella pittura. Grazie ad essa infatti, si potevano copiare i paesaggi proiettati su un foglio. Via via nel tempo, vennero aggiunti alcuni miglioramenti.

Nel 1591 il napoletano Giovanni Battista Della Porta suggerisce il modo di ingrandire e migliorare la nitidezza dell’immagine usando una lente convessa.

Nel 1685 il tedesco Johann Zahn costruì una scatola ottica inserendo all`interno uno specchio inclinato a 45° (l’invenzione che sta alla base delle reflex moderne), che permetteva di correggere l’immagine capovolta proveniente dall’obiettivo proiettandola diritta su un vetro traslucido, sul quale poi gli artisti potevano appoggiare un foglio per riprodurre le scene.

Questa fu una vera rivoluzione, perché rese possibile una rappresentazione di città e di paesaggi molto più fedele alla realtà, benché sempre idealizzata. Anche il Canaletto e Vermeer, così come diversi altri artisti, utilizzarono questo strumento per immortalare la disposizione degli elementi all’interno delle loro opere.

Immagine di una scatola ottica

Immagine di una scatola ottica

La chimica e le sperimentazioni

Tuttavia non si era ancora in grado di fermare automaticamente su un supporto le immagini proiettate, così iniziarono i primi studi per individuare un composto chimico in grado di farlo e si avviarono numerose ricerche sui materiali fotosensibili. Per molto tempo questa divenne quasi l’ossessione di molti studiosi, finché un giorno, un litografo francese di nome Joseph Nicépore Niépce, riuscì nell’impresa.

Durante la sua attività, Niépce maturò il proposito di eseguire immagini per la stampa calcografica senza l’intervento di un disegnatore. Si dice che Niépce non fosse un abile grafico, pertanto, al fine sopperire a questa sua mancanza, attivò le sue capacità di litografo e la sua indole di sperimentatore. Iniziò così a studiare e a sfruttare vari componenti chimici unitamente all’utilizzo della camera oscura. Con l’impiego del cloruro d’argento riuscì ad ottenere le prime immagini, seppur poco chiare e confuse. Alcuni anni più tardi, dopo vari esperimenti falliti, iniziò a sfruttare il bitume di Giudea ottenendo risultati decisamente migliori.

La prima eliografia della storia

La fotografia intitolata ”Vista dalla finestra a Le Gras” è il primo esempio riuscito di fissare un’immagine in maniera permanente su un supporto. Fu questa immagine a consegnare il nome di Niépce alla storia.

La prima fotografia della storia: “Point de vue du Gras” di Niépce

La prima fotografia della storia: “Point de vue du Gras” di Niépce

Creata da Niépce il 9 febbraio 1826, è la più antica fotografia esistente tuttora conosciuta. Per l’esattezza si tratta di un’eliografia (dal greco helios = sole e gráphein = disegno) ed il soggetto è il panorama visto da una finestra al primo piano della casa-laboratorio di Niépce; per impressionare la lastra di peltro sensibilizzata con del bitume di Giudea ci volle un’esposizione di circa 8 ore.

Ma la storia non finisce qui!

Il “fattore fortuna” e la dagherrotipia

In seguito alla sconfortante perdita di suo fratello, impiegato con lui nelle ricerche sull’eliografia, Niépce visitò Parigi dove conobbe Louis Daguerre, un chimico con il quale, nel 1829, fondò un’associazione per il perfezionamento dei materiali fotosensibili. Sfortunatamente pochi anni più tardi Niépce morì, senza poter vedere il pieno riconoscimento dell’importanza dei suoi studi.

Così entra in gioco il “fattore fortuna”: raccontano che un giorno, per distrazione, Daguerre lasciò un cucchiaio su una lastra di rame preparata con ioduro d’argento. Dopo un po’, notò che il cucchiaio si era impresso sulla lastra. Scoprì così casualmente la sensibilità di quel composto alla luce.

Ma c’è di più. Si dice che un giorno, durante un tentativo di scattare una foto, visto il cattivo tempo, decise di rinunciare e di riporre le lastre precedentemente preparate nell’armadio del suo studio. Qualche tempo dopo, quando le riprese, si accorse che le lastre avevano impresso immagini chiare e già sviluppate. Capì che nell’armadio, dove conservava diverse miscele chimiche, doveva esserci la risposta a quell’effetto inaspettato. Iniziò a sperimentare tutte le combinazioni possibili dei componenti, fino a scoprire il responsabile di quella reazione sorprendente: una bottiglietta di mercurio, dalla quale si sprigionavano vapori capaci di rivelare definitivamente l’immagine latente sulla lastra in soli 20 minuti. Infine, intuì che quell’immagine poteva essere fissata con una soluzione di tiosolfato di sodio, che eliminava gli ultimi residui di ioduro d’argento, bloccando così il processo di impressione della lastra.

Daguerre scoprì così quella tecnica che prenderà il suo nome: la dagherrotipia.

Nel 1939 Daguerre fotografa il “Boulevard du temple“. E’ la prima immagine che include al suo interno una figura umana: un gentiluomo fermo a farsi lucidare le calzature da un lustrascarpe.

“Boulevard du temple” di Daguerre, 1939

“Boulevard du temple” di Daguerre, 1939

L’ufficializzazione

La fotografia nasce formalmente il 7 gennaio 1839, quando lo studioso François Dominique Arago espone all’Illustre Accademia delle Scienze e Belle Arti di Francia il processo rivoluzionario della dagherrotipia, l’invenzione di Louis Daguerre.

L’immagine ottenuta con il dagherrotipo, così come l’eliografia, è una preziosa copia unica non riproducibile; a seconda dell’angolo con cui viene visualizzata appare in positivo o in negativo e, soprattutto, mostra il soggetto riflesso orizzontalmente. Inoltre il dagherrotipo veniva conservato in scatole o cornici di vetro al fine di evitarne l’ossidazione a contatto con l’ossigeno.

Dalla sua scoperta, la dagherrotipia si diffuse rapidamente in Europa e negli Stati Uniti e divenne molto popolare durante la seconda metà del XIX secolo. Fu utilizzata soprattutto per la produzione di ritratti di persone benestanti, ma fu anche impiegata per la fotografia di paesaggi, architetture ed oggetti d’arte.

Dopo aver reso ufficiale la tecnica, come già menzionato, il dagherrotipo fu soggetto a un brevetto da parte del suo inventore, che avviò prontamente la commercializzazione dei primi apparecchi fotografici; questo momento rappresentò l’alba del mercato fotografico.

Ma il dagherrotipo ebbe vita breve perché a sostituirlo arrivò ben presto la calotipia.

La scoperta della calotipia: la riproducibilità tramite negativo

I primi esperimenti, prodotti in Gran Bretagna da William Henry Talbot, un poliedrico scienziato e inventore inglese, danno origine ad un nuovo metodo chiamato calotipia (o talbotipia, in onore del suo creatore), presentato alla Royal Society nel 1839 e brevettato nel 1841, successivamente all’ufficializzazione della dagherrotipia.

Quella del calotipo è una tecnica innovativa per l’epoca, consistente in un negativo fotografico su carta che permetteva la stampa di più copie.

Si risolsero così alcuni dei problemi più gravi del dagherrotipo, fragile e costoso nei materiali e soprattutto prodotto in copia unica, seppur di ineguagliabile nitidezza. Tale procedimento è fondamentale dal punto di vista storico perché segna I’inizio della fotografia, intesa come possibilità di moltiplicazione delle immagini da un’unica matrice.

Talbot ebbe una sorta di intuizione nel 1834, durante un viaggio sul lago di Como, in Italia. Osservando il paesaggio attraverso un disegno fatto sulla carta, gli venne l’idea di fissare le immagini tramite esposizione alla luce. Iniziò così una serie di esperimenti basati su questa ispirazione. Nel 1835 scattò la sua prima fotografia sperimentale, utilizzando carta precedentemente trattata con nitrato d’argento.

Una finestra dell'abbazia di Lacock, in Inghilterra, fotografata da William Fox Talbot nel 1835

Una finestra dell'abbazia di Lacock, in Inghilterra, fotografata da William Fox Talbot nel 1835

Una finestra dell'abbazia di Lacock, in Inghilterra, fotografata da William Fox Talbot nel 1835

Il supporto preparato veniva esposto alla luce attraverso l’obiettivo della fotocamera. L’immagine proiettata sull’emulsione sensibile creava in breve tempo (da circa 10 secondi a pochi minuti, a seconda delle condizioni della scena da ritrarre) un’immagine latente che veniva in seguito sviluppata in una soluzione di acido gallico, creando così un negativo. Quest’ultimo veniva poi fissato in una soluzione di tiosolfato di sodio; in tal modo si arrestava il processo chimico e l’immagine diventava permanente.

Infine, per poter ottenere un positivo dalla matrice, si fotografava il negativo ottenuto e si applicava lo stesso procedimento di sviluppo e fissaggio appena descritto.

Fu così che il dagherrotipo cadde velocemente in disuso, lasciando spazio alla calotipia che divenne la tecnica dominante, gettando le basi per lo sviluppo successivo della fotografia (termine coniato in seguito da John Herscel), aprendo la strada a tecniche più moderne e permettendo la diffusione su scala più ampia dell’arte fotografica.

Conclusioni

L’origine della fotografia non può essere attribuita a un singolo individuo, bensì a numerose menti brillanti e creative. Il fatto che siano state molte le persone a contribuire alla sua nascita sottolinea come la fotografia sia figlia della cultura mondiale.

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